martedì 14 aprile 2009

Interumano

alcune tra le più (apparentemente?) diverse letture che ho fatto negli ultimi messi hanno un filo trasversale (forse accademicamente inaccettabile) che le legano:

- Nietzsche, inteso come osservazione capillare della 'morale' come fatto dell'uomo nella vita con gli altri (e, quindi, con se stesso come 'altro', come buona o cattiva coscienza), la morale intesa come spazio della relazione, di circuiti azione - reazione, sentimento - risentimento

-Berne, l'analisi transazionale di 'a che gioco giochiamo?' l'idea di una psicologia comportamentale della relazione, dove si leggono i comportamenti umani che legano due o più persone come 'ruoli' di un gioco, che, in quanto tale, si istituisce in quanto 'parti' e 'regole'

-Goffman, la vita quotidiana come rappresentazione ovvero la presentazione intersoggettiva del sè, il controllo delle impressioni offrite dal sè agli altri, la metafora della città come teatro con palcoscenico e dietro le quinte, la natura simbolica dell'interrelazione

-Hannerz, esplorando la città, ampio ripercorrimento della antropologia della vita urbana con delicatissimi passaggi di 'microsociologia' che osservano dinamiche estremamente pregne e minute, zoomano su una singola occasione d'incontro, di relazione (dalle taxi dance hall di cressey alle network analisi dei 'sei piani di separazione', alle relazioni di traffico di un supposto 'mondo di stranieri')

e, ovviamente, neanche troppo sullo sfondo, mai dimenticato,

-Buber, e l'affermazione della relazione come principio piuttosto che come fatto secondario, l'attenzione alla relazione e all'interumano come principale compito della 'filosofia'.

qui gli approcci sono multipli, e, lo ripeto, probabilmente inconciliabili, ma c'è qualcosa che vale la pena evidenziare: l'attenzione per l'interumano. E' su questo che credo valga, per me, la pena di lavorare...

lunedì 30 marzo 2009

Due spunti

1

Si racconta che Platone volesse far capire una volta per tutte cosa fossero le stramaledette idee ai suoi scolari.
Disse quindi a tutti loro ‘disegnate un cavallo’. Questi lo disegnarono, ed alcuni erano scattanti, altri statici, alcuni erano bianchi, altri marroni, alcuni avevano il viso lungo e affilato, altri più tozzo…Ma tutti avevano quattro zampe, la criniera, la coda… queste caratteristiche accumunavano tutti i cavalli: erano, se vogliamo, indizi di cavallinità.
Ecco, allora, come nascono le idee! Quei tratti che ogni uomo, pensando a un determinato soggetto, non potrà rinunciare ad esprimere.
Proviamo a fare questo gioco. Diciamo i più svariati (s)oggetti e facciamoli disegnare a tante persone: cane, gatto, carro armato, caffettiera…
Tutti saranno diversi, ma ci saranno degli indispensabili tratti comuni: di qui, le idee…

p.s. e se le Idee fossero invece stereotipi? Se la concordia universale nel rappresentare un (s)oggetto implicasse piuttosto uno stereotipo?

2

Come facciamo a capire ogni volta che incontriamo quattro gambe con un piano orizzontale ed un ideale prolungamento delle due gambe posteriori che si tratta di una sedia? A riconoscere, quindi, una sedia?
Esistono gambe di legno, di plastica, di acciaio. Lo schienale può essere assente. Le gambe non è detto che siano quattro. Però, noi ci sediamo lo stesso…
Noi la riconosciamo come una sedia perché ci sediamo lo stesso…
Intuiamo la sedia perché percepiano la sedibilità, percepiamo che ‘quella cosa’ ci può essere utile per ‘farci sedere’, per farci poggiare, semplicemente, ma non banalmente, le chiappe.
È la sedibilità che fa la sedia, ovvero una sua proprietà costituitva fondamentale.
Noi riconosciamo una sedia perché intuiamo che quella cosa che incontriamo, anche se non ha le 4 gambe canoniche e lo schienale, può far si che ci sediamo…
In questo senso anche un tavolo può diventare sedia, se ci sediamo sopra…
Ma allora è tavolo o è sedia?
Se mi ci posso sedere sopra, è sedia… Se posso usare la sua superficie orizzontale per appoggiarci cose con cui interagire, è tavolo…
Eppure, il tavolo rimane tavolo, e la sedia rimane sedia…
Ma tu puoi dare ‘sedietà’ al tavolo e ‘tavolità’ alla sedia in ogni momento!

P.s. pensa alle associazioni di idee che partendo da qui si possono fare! In questo senso si può progettare un orinatoio a forma di tulipano, perché analoga è la funzione di raccoglimento della forma che un orinatoio deve avere e che un tulipano ha! Oppure, un apribottiglie a due braccia può essere un omino, e così via…
Proviamo a pensare solo alle proprietà degli oggetti… quasi ogni cosa potrà diventare quasi ogni cosa!

sabato 14 marzo 2009

Unintitled

…Diventò sempre più ironico. Poi più sarcastico. L’umorismo era la risposta ad un sapersi infelice troppo certo. Un tentativo di abitare lo spiacevole, o l’aggressività agonizzante di una bestia ferita? Ma non solo questo. Ogni cosa vacillava, si mostrava bucata. Sporadici conati di entusiasmo erano trafitti dalla paura d’Altri. Insensatezza promanava da praticamente tutto, ovvero, mancava una direzione, e quindi un senso, un sentire certo. Per questo non valeva la pena di soffrirne apertamente. Apertamente, sì, nel modo pieno e rotondo, per quanto dentato, di una fauce digrignante che tuttavia afferma ‘questo è l’oggetto della mia sofferenza’, e, quindi ‘a questo io tendo, questo avrei voluto, preteso, santificato’.
Nel momento in cui la coscienza dell’assurdo aveva sostituito il mondo stesso, diventava impossibile legarsi ad alcunchè stabilmente, e tutto assumeva una connotazione transitoria. E proprio per questo non poteva neppure piangere, neppure incazzarsi, chè il pianto e l’incazzatura presuppongono comunque una posizione di valore, un porto in cui trovare quiete. E invece, schernito dalla vacuità, irridente come una iena, non nella volontà di distruggere, ma nell’impossibilità del costruire, che tutto era cedevole, nulla esente da contraddizione, mancava l’interezza. Distruggeva cose situazioni persone con un sì o con un no. Con un inarcato senso del contraddittorio polverizzava la bellezza che desiderava con una nostalgia nemmeno troppo segreta. E tutto questo non era maschera in senso sociale, non era reattività da mostrare per parere forte, : era piuttosto decostruzione totale, desoggettivazione compiuta, restava solo per lui la possibilità di essere una relazione con ciò che via via incontrava, l’adagio ‘je est un autre’: una pienezza originaria talora filtrava, la possibilità di un istante in cui poteva dire ‘sono qui’, e tutto era perfetto, pieno, respirava, si collocava nel qui ed ora. Uno stupore che era bontà lo possedeva allora, e tornava ad ammirare una geometria dell’attimo, una armonia diffusa che gli faceva sentire una posizione, quella in cui era, e un compito. Poteva essere molto buono, se solo avesse saputo sentirsi presente…
L’assenza lo portava alla violenza, alla profanazione. ‘Io non esisto sempre’, e intanto il tempo scorreva con una velocità impazzita. Si trovava a metà di un mese senza neanche accorgersene, da un lunedì all’altro, da un sabato all’altro. Ogni giorno segnava su una agenda persone e cose fatte, uno scheletrico segnavia. Se qualcuno gli avesse chiesto, e gliel’avrebbe chiesto, che cosa aveva fatto questa giornata, quella giornata, non avrebbe saputo rispondere. Non c’era? Non fino in fondo, non al punto da sentire di esistere. Che se esistere voleva dire ex-sistere ‘stare fuori di sé’, relazionarsi, essere nell’altro, nutrirsi dell’altro, per tornare a sé, vivi, poteva ‘insistere’, cioè stare entro sé, solo se priva fosse, almeno per un po’, esistito. Non esisteva abbastanza. Non insisteva quasi mai.

domenica 25 gennaio 2009

L'innocenza della strada

Ritrovo il piacere di una lettura notturna: Kerouac. Penso a quella che chiamava "L'innocenza della strada", e prima ancora dei suoi occhi. Occhi meravigliati, costantemente, del gioco del mondo che si svolge sempre dinnanzi a lui. Occhi entusiasti, gonfi di stupore, nel sentire costantemente ogni umano incontrato come una storia, come un plesso di vita, vita vissuta, intensa, autonoma, adulta, grande, forte. Incantamento, nel cogliere nel proprio prossimo sempre qualcosa di destinale, come già in un manifesta attaccato ad un albero o ad un traliccio, e sbiadito, non consunto dagli sguardi di pasanti invero affaccendati ed ignavi, bensì dallo scorrere dell'insensibile pioggia, dal meccanismo perfettamente oleato - e crudele - del tempo. Uno stupore che è bontà: tutto è bello così, il mondo ridiventa miracolo.
E ogni figura incontrata diventa un dono, una rivelazione che può essere fatta, che può condurre lontano, leggermi. In questo muoversi indistinto senza meta, ogni cosa viene letta senza uno scopo, ogni persona incontrata e poi lasciata,senza trattnerla; la mancanza di un fine rende possibile l'incontro con una maggiore purezza: la purezza di una parola che si può schiudere; che può riempire di commozione per il semplice fatto di esserci.

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"Adesso volevo dormire una giornata intera. Così andai all'YMCA per prendere una stanza; non ne avevano, e istintivamente vagai giù verso i binari ferroviari - e a Des Moines ce n'è un'infinità - e andai a finire in un malinconico vecchio albergo di terz'ordine accanto al deposito delle locomotive e passai una lunga giornata a dormire sopra un ampio letto bianco e duro e pulito con frasi sconce graffite sul muro accanto al mio guanciale e la malandata serranda gialla abbassata sopra il panorama fumoso dello scalo ferroviario. Mi svegliai che il sole si faceva rosso; e quello fu l'unico, chiaro momento della mia vita, il momento più strano di tutti, in cui non seppi chi ero... Mi trovai lontano da casa, ossessionato e stanco del viaggio, in una misera camera d'albergo che non avevo mai vista, a sentire i sibili di vapore là fuori, e lo scricchiolare di vecchio legno della locanda, e dei passi al piano di sopra, e tutti quei suoni tristi; e guardavo l'alto soffitto pieno di crepe e davvero non seppi chi ero per circa quindici strani secondi. Non avevo paura; ero solo qualcun altro, un estraneo, e tutta la mia vita era una vita stregata, la vita di un fantasma. Mi trovavo a metà strada attraverso l'America, alla linea divisoria fra l'Est della mia giovinezza e l'Ovest del mio futuro, ed è forse per questo che ciò accadde proprio lì e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso."

Jack Kerouac, Sulla strada.

domenica 18 gennaio 2009

Sul concetto di rivelazione

Il concetto di rivelazione, nel senso che all'improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede a chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti - io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sè con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e di irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all'interno di una tale sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme - la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell'ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione.. Tutto avviene in un modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità..

(F.Nietzsche, Ecce homo)

martedì 6 gennaio 2009

Morali

'Voglio portare loro un po' dei ravioli che ho appena fatto' (comportamento attivo: interamente decisa dal soggetto)
'Ma non ti rendi conto che se ne approfittano?' (comportamento reattivo: valuto il mio agire non in base a 'me stesso' ma a come si comporta l'altro. Il baricentro morale non è nel soggetto)
'Che cosa?'
'Si. Se ne approfittano. Tu glieli porti e loro non ti dicono quasi neanche grazie. ti fai prendere per il culo.' ('cattiva coscienza'?)
'Io non sono fatta così. Io se ho voglia di dare qualcosa a qualcuno glielo do e basta. Non sto neanche a guardare se mi da qualcosa in cambio.' (comportamento attivo: non si preoccupa della reciprocità, morale da signori)
'Io no. Loro non mi danno neanche un bicchiere d'acqua. E tu dovresti portargli i tuoi ravioli?' (Comportamento reattivo: morale da schiavi)
'Ma io non lo faccio neanche per loro, lo faccio per i bambini...'
'E non ti rendi neanche conto che in realtà se li mangiano loro e non li danno ai bambini!' ('cattiva coscienza')
'Ma quale madre potrebbe fare una cosa del genere?' (ingenuità?)
'Lei!'
'Io voglio sentirmi di poter donare una piccola cosa così...in serenità. Io sono generosa...quando vado in paese tutti fanno a gara a offrirmi un caffè...e non riesco mai a offrirglielo da quanto mi vogliono bene!' ('la virtù')
'Tu vivi nel mondo delle favole... guarda che la realtà va un po' diversamente.' ('il corso del mondo')
'Così facendo tu, poi alla fine non glieli porto neanche quei ravioli, piuttosto che fare liti...e poi sto male con me stessa.'
(vittoria della morale degli schiavi su quella da signori, cioè degli affetti reattivi su quelli attivi. 'Bisogna difendere i più forti dai più deboli'.)

domenica 28 dicembre 2008

In cammino verso il Buddhismo?

'Siete voi che scegliete il vostro soffrire'. Sentenza durissima, ma in definitiva che non posso non riconoscere altrimenti che vera. C'è uno scarto tra le cose e le risposte. La sofferenza è una risposta, non è nelle cose, ed è una risposta tanto più insidiosa, sleale, e, in definitiva, vincente, sopraffacente, nella misura in cui appare come l'unica. Quando la sofferenza appare, essa appare l'unica risposta nella misura in cui appare non come 'risposta' ma come 'fatto'. Dobbiamo non dimenticare pertanto che essa non è nelle cose, ma nel nostro modo di essere in relazione alle cose.
C'è qualcosa di esterno, qualcosa di invadente. E' difficile riuscire a non farsi contaminare dall'invadenza di forze esterne. E' difficile rialzarsi, dopo cadere, in contesti come quello di 'casa'. E' la 'realtà' che è poca in una 'casa'.
Ogni realtà che abbiamo, è volta a volta la nostra realtà; abbiamo quella. E ci sono realtà che nutrono di più e realtà che nutrono molto meno. Le seconde non sono necessariamente in difetto, ma allorchè avviene un evento disturbatore è molto più difficile trovarne uno ridestatore. Si sopravvive per anestesia, e non per iperestesia.
E invece possiamo vivere solo per iperestesia, nutrendoci, con stimolazioni determinanti provenienti da una realtà che volta a volta non possiamo fare a meno di volere, come terreno unico d'apprendimento, come infinito desiderio d'apprendimento, d'essere in cammino, in divenire, come le cose stesse sono...
La dimensione domestica sembra non partecipare del divenire cosmico. Sembra una monade esclusa al moto incessante di fluttuazione, un principato a statuto speciale contrassegnato dalla staticità, dall'eterno ritorno del banale. Latrati dalla cucina, vibrazioni di televisori, sciacquoni, porte che vengono aperte senza neanche bussare: anche la mia.
Ed ecco il travisamento: anestesia in luogo di iperestesia, con conseguente svuotamento della ricettività, che così è pronta ad accogliere solo e soprattutto i mantra più autodistruttivi.
Manca il nutrimento, la naturale partecipazione a una volontà di autoaccrescimento e di esperienza, di eventi che non vengono però più visti e desiderati come inveramento del tempo ordinario (che così sarebbe solo frammentarietà in attesa del prossimo Messia, che periodicamente appare, ma dura poco, ci se ne nutre più per curiosità che per esistenzialità: un Messia usa e getta...)
Si tratta di trovare una abitabilità nel quotidiano, in questo senso mi sono accostato alla pienezza del Chassidismo. Si tratta di fare propria la realtà, questa realtà e non altra, e di viverla con presenza. Ma fuggirne l'urticante invadenza con cui questa sfonda il nostro spazio, questo è compito degno di un Budda..
'In cammino verso il Buddismo'? Forse. Leggendo in questi giorni i libri di Giulio Cesare Giacobbe mi sono accorto di aver maturato negli scorsi mesi pensieri profondamente consonanti con quelli dell'illuminato. anche a me giunsero come illuminazioni, ma... non tennero, stabilmente, come pratica. ma i pilastri (incessante divenire di tutte le cose, non attaccamento, necessità di un lavoro sui pensieri cogliendoli sempre come 'propri' pensieri, e, in questo, come lavorabili, portare presenza nella realtà -soprattutto!!!- e, ultimo e piu complesso, ma, anche lui, sporadicamente ed indimenticabilmente sperimentato - amore universale) li conosco, e li conosco perchè li ho praticati, li ho pensati, li ho anche collegati, senza sapere che qualcuno -decisamente- più illuminato di me li avesse enunciati, concatenati, e praticati.

mercoledì 17 dicembre 2008

' Quando è vita, mi chiedo, e perchè non ora? '

C'è una strana nostalgia dei brani incontrati in ritardo sul proprio cammino, quando li si avverte parlare, eppure se ne sente la distanza. Si percepisce che il loro tempo è passato, tramontato, oltrepassato. Eppure permangono alcune domande di fondo, per quanto, a torto o a ragione, ci se ne sia più o meno sbarazzati. Inquietante è stato reperirvi una domanda: quella che fa da titolo al post, e che, in questi giorni, stava tornando. Ecco una provvida serendipity. Ed ecco quindi una pagina di Tropico del Capricorno di Henry Miller, pagina che ha settant'anni ormai, e non li dimostra affatto:

"Tutti e tutto è parte di vita, ma quando si son tutti sommati assieme, ancora chissà perchè non è vita. Quando è vita, mi chiedo, e perchè non ora? Il cieco va avanti e io resto a sedere sullo scalino. Le polpette erano stantie, il caffè era schifoso, il burro era rancido. Tutto quel che guardo è marcio, schifoso, rancido. La strada pare un fiato cattivo; la strada accanto lo stesso, e l'altra e un'altra ancora. All'angolo il cieco si ferma e suona La casa della mia montagna. Mi trovo in tasca un pezzo di gomma, lo mastico. Mastico per amore del masticare. Non c'è assolutamente niente di meglio da fare, a meno che non voglia prendere una decisione, che è impossibile. Lo scalino è comodo e nessuno mi secca. Sono parte del mondo, della vita, come suol dirsi e ci appartengo e non ci appartengo.
Siedo sullo scalino per un'ora circa, oziando. Giungo alle stesse conclusioni di sempre, quando ho un minuto per pensare da solo. O vado a casa immediatamente e mi metto a scrivere o scappo via e inizio una vita tutta nuova. Il pensiero di cominciare un libro mi atterrisce: c'è tanto da dire che non so dove e come cominciare. Il pensiero di scappare e di ricomincicare daccapo mi atterrisce anch'esso: significa lavorare come un negro per tenere assieme anima e corpo. Per un uomo del mio temperamento, essendo il mondo quel che è, non c'è assolutamente speranza, nè soluzione. Anche se potessi scrivere il libro che voglio scrivere, non servirebbe, perchè fondamentalmente non ho voglia di lavorare, non ho voglia di diventare un membro utile della società. Sto seduto a fissare la casa dall'altra parte della strada. Sembra non solo brutta e insensata come tutte le altre case della strada, ma a fissarla intensamente all'improvviso è diventata assurda.
L'idea di costruire un luogo di rifugio in quel modo particolare mi semvra assolutamente folle. La città medesima mi sembra un esempio di somma follia, tutto quel che c'è dentro, fogne, ferrovie sopraelevate, macchine a gettoni, giornali, telefoni, guardie, maniglie delle porte, casini, carta igienica. Tutto potrebbe anche non essere, e non solo nulla andrebbe perduto, ma anzi si guadagnerebbe un universo intero. Guardo la gente che mi passa accanto per vedere se per caso qualcuno è d'accordo con me. Supponiamo che ne fermassi uno per fargli una semplice domanda. Supponiamo che gli dicessi all'improvviso 'perchè continui a vivere in questo modo?' Probabilmente chiamerebbe una guardia. Mi chiedo se per nessuno si parla mai come faccio io."

da Henry Miller, Tropico del Capricorno.

" Chiunque per troppo amore - che dopo tutto è mostruoso - muore della propria infelicità, rinasce per non conoscere più nè amore nè odio, ma per godersela. E questa gioia di vivere perchè acquisita innaturalmente, è un veleno che alla fine inquina il mondo.Tutto ciò che è creato oltre i limiti della sofferenza umana, funziona come un boomerang e reca distruzione."

lunedì 8 dicembre 2008

Imparate a ridere!

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, IV libro.

15Quanto più alto il suo genere, tanto più di rado riesce bene una cosa. Voi qui, Uomini Superiori, non siete tutti riusciti male?State allegri, che importa! Quante cose sono ancora possibili! Imparate a ridere di voi stessi, come si deve ridere!Qual meraviglia che voi siate riusciti male o a mezzo, voi mezzi falliti! Non fermenta e getta polloni in voi il futuro dell'uomo?Quanto nell'uomo è più lontano, più profondo, più stellare, la sua forza inaudita, non spuma e gorgoglia tutto insieme nei vostri vasi?Qual meraviglia che qualche vaso si rompa!Imparate a ridere di voi stessi, come si deve ridere! O voi, Uomini Superiori, quante cose sono ancora possibili!E intanto quante cose sono già riuscite! Come è ricca questa terra di piccole e buone cose perfette, di cose ben riuscite!Ponetevi accanto piccole buone cose perfette, voi, Uomini Superiori! La cui dorata maturità risana il cuore. Le cose perfette inducono a sperare.

16Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: 'Guai a coloro che ridono!'? Non trovò egli sulla terra nessun motivo di riso? Vuoi dire che cercò male. Anche un bambino lo trova. Costui non amava abbastanza: altrimenti avrebbe amato anche noi, i ridenti! Ma egli ci odiava e ci spregiava, e ci augurava strida e dolor di denti. Ma che forse è necessario subito maledire quando non si ama? Mi sembra una cosa di cattivo gusto. Senonché, così faceva lui, quell'uomo che non veniva a patti, l'assolutista. Proveniva dal popolo. Non amava abbastanza: questo era il suo guaio: altrimenti si sarebbe meno adirato per il fatto che non lo amavano. Ogni grande amore non vuole amore: vuole qualcosa di più. Sfuggite tutti questi assolutisti! È una povera gente malata, una schiatta plebea: guardano con occhio storto la vita, hanno il malocchio nei riguardi della terra. Sfuggite tutti gli assolutisti! Hanno piedi pesanti e cuori opprimenti: non sanno danzare. Eppure come potrebbe esser loro lieve la terra!

Dell'ironia

E' difficile non cadere sotto il peso del proprio se stessi. Che cosa sia questo se stessi non è questa la sede per pensarlo. 'Non Rinunciare al proprio valore' è una tentazione sottile di spillo fitto, di fioretto che taglia la pasta grossolana della realtà per ricamare con precisione auto-lesionista, ed inevitabile. 'Rinunciare al proprio valore' suonerebbe allora come una possibilità, ma cosa significa? Non la adolescenziale 'rinuncia al propio essere se stesso', ma qualcosa di più profondo, la rinuncia al peso del proprio essere se stesso. Che tipo di peso? Il peso che vi è nel prendersi troppo sul serio, nel prendere troppo sul personale, nel sentirsi di dover mostrare e di-mostrare. Ogni forma di perdita di spontaneità è sorgente di disagio. La tentazione di cedere al proprio valore significa la tentazione di cedere alla propria precisione, dato che il valore di un individuo può risiedere anche nella precisione con cui può esprimersi il suo sentire. Cedere alla propria precisione: in un turbine istantaneo, la precisione si muta in disagio, allorchè avverte discorsi sempre troppo approssimativi, sempre troppo chiacchiera. Si parla di cose che non si conoscono, si biascicano parole raccogliticce trovate al telegiornale e le si indossa come cappotti troppo larghi o troppi stretti, spifferi di approsimazione. Ma la precisione non può distruggere chi la porta seco. Non sarà tutto questo sommamente presuntuoso? Già vedo le avvisaglie di chi potrebbe tacciare questi discorsi come presuntuosi, come snob, come superbi. Non c'è mai stato, al contrario, un maggior amore dell'uomo che può condurre all'enunciazione di questo... E' l'attestazione di una sconcertante mediocrità, di una disarmante medietà, cioè di una approsimazione nella vita e nell'opinione non discussa che conduce a queste considerazioni...
E comunque: occorre saper fare da parte questa precisione, questo peso del proprio Io, questa inarrestabile capacità di dissezione ed interpretazione, questa inesausta richiesta di argomentazione a fronte di pensieri altrui che paiono davvero 'fumo passivo' assorbito senza consistenza.
Due sono i rimedi che ho trovato per sopravvivere a questa precisione, a questa istanza che ovunque mi segue: l'amore e l'ironia. Ogni volta che ho incontrato qualcosa di bello, di nobile, di alto non ho potuto fare a meno di am(mir)arlo. Ogni volta che ho incontrato qualcosa di brutto, di cattivo, di spregevole... Non è sempre stata la stessa la reazione. Potrei scrivere una intera biblioteca sulla 'esperienza pensante del brutto e dell'ignobile', perchè a monte è così in me robusta la possibilità di avvertire pienezza, presenza, verità, vita...
Adesso ho la risposta al brutto: si chiama ironia. Come in un racconto Ebraico Chassidico potrei inventare così una storiella: 'Il buon Dio creò cose molto belle, e creò nell'uomo l'amore affinchè potesse partecipare ad esse, ed essere felice. Il buon Dio creò invero anche cose meno belle, e s'avvide ben presto che la partecipazione dell'uomo ad esse provocava in quello fastidio, rabbia, tristezza. Venne allora il buon Dio a porre una pezza: l'ironia, affinchè la bruttezza non tediasse più a lungo l'uomo. Così questa è la legge: amare ciò che è bello, l'ironia per ciò che non è bello."
Con questi pensieri, e molti altri, sono arrivato a leggere la Gaia scienza di Nietzsche e le opere di Martin Buber...

La 'gaia scienza' vs la 'macchina pe(n)sante'

[F. Nietzsche, La Gaia Scienza, aforisma 327, libro quarto.]
"Prendere sul serio - L'intelletto è nei più una macchina pesante, tenebrosa e scricchiolante, che malamente si riesce ad avviare: costoro chiamano «prendere la cosa sul serio» quando vogliono lavorare con questa macchina e ben pensare -- oh! come deve essere gravoso per loro il ben pensare! L'amabile bestia uomo appare perdere il suo buon umore ogni qualvolta pensa bene: essa diventa «seria»! E «dove c'è riso e allegrezza, il pensare non vale un bel nulla», così suona il pregiudizio di questa bestia seria contro ogni «gaia scienza». Orsù! Mostriamo che è un pregiudizio!"

sabato 6 dicembre 2008

Responsabilità

Siamo responsabili. Ma davanti a chi e per chi? Siamo prima di tutto responsabili per noi stessi o per gli altri? Affinche è la responsabilità esista, occorre qualcosa di cui rispondere, occorre un'alterità. Tale alterità lancerà un appello, di cui potremo farci o meno carico, e se ce ne faremo carico, come ce ne faremo carico sarà determinante. Non esiste responsabilità se non c'è un 'che cosa' che chiama, e che chiama a una nostra risposta. In verità noi rispondiamo sempre, anche quando ignoriamo di essere chiamati.
L'alterità è la conditio sine qua non della responsabilità, MA la responsabilità è prima di tutto responsabilità davanti all'altro o a se stesso?
La tesi paradossale che voglio proporre è: solo grazie ad un altro divento responsabile davanti a me stesso. L'altro ha una priorità nell'incontrare, nello stato di cammino della vita in cui è lui, trovato (o donato) che mi porta davanti alla mia responsabilità. La legge esiste dove c'è una relazione: io ho a che fare con uomini, animali, boschi... Per un uomo nella sua solitudine non esiste la necessità di prescrivere leggi dall'esterno: è l'individuo stesso che diventa legge per se stesso, alla base della responsabilità che si è saputo assumere -o meno- quando ha avuto a che fare con l'Altro.
E' da come mi comporto con l'Altro che sto come sto quando sono solo con me stesso: in questo senso posso spiegare la coscienza e la sostenibilità -o meno- della solitudine. H. Arendt scriveva che se rubo qualcosa a qualcuno, quel qualcuno soffrirà,certamente,per un giorno, un mese, un anno, dipende. Poi basta. Ma se rubo qualcosa a qualcuno Io sono costretto a convivere con un ladro -me stesso- per il resto della mia vita.
In questo senso la responsabilità verso Altri è prima di tutto verso se stesso.

Andiamo in Laboratorio

Se una mia amica di Farmacia mi dice 'oggi andiamo in laboratorio' penso inevitabilmente a tante apparecchiature, capsule, Bunsen, burette, provette, anche con una certa stereotipa visione.
Se io dovessi dire 'oggi vado in laboratorio' che farei?
Da subito ho pensato, 'noi non abbiamo laboratori con strumenti super sofisticati, ma abbiamo biblioteche, con libri che spesso costano dai venti euro in su." Ma non era ancora questo, il laboratorio.
Eravamo sul treno,mentre parlavamo del suo 'andare in laboratorio'. Intorno a noi, le conversazioni di altri passeggeri, chi nella chiacchiera, chi nel dialogo... E allora capii.
Che per andare in laboratorio, io, studente di filosofia, avevo una possibilità ben più fortunata, gratuita, sebbene talvolta scomoda ed ingombrante: per andare in laboratorio, mi sarebbe bastato aprirmi ed ascoltare il mondo stesso! In che senso posso fare filosofia?

"Chi oggi vuol fare uno studio su fatti morali, si vede aperto un immenso campo di lavoro. Ogni specie di passione deve essere approndita separatamente e separatamente perseguita attraverso tempi, popoli, individui grandi e piccoli: bisogna scoprire completamente la loro ragione e tutte le loro valutazioni e chiarificazioni delle cose! Fino ad oggi tutto quanto ha dato colore all'esistenza, non ha avuto ancora storia: o dove mai si è avuta una storia dell'amore, della cupidigia, dell'invidia, della coscienza, della pietà e della crudeltà..." (Nietzsche, La gaia scienza, Libro 1, par.7.)

Un caso Lévinassiano.

Supponiamo che un vostro amico vi dica qualcosa che sta facendo, e che questo 'qualcosa' sia, da un punto di vista esterno, e che nella sua esternità pretende di parere dannoso per lui a livello 'oggettivo' (è quantomeno 'oggettivo' in quanto prende coscienza del fatto come 'oggetto', nella dimensione di esternità, di estraneità che vi è nei confronti del separato 'oggetto').
Si: il vostro amico sta facendo qualcosa che è dannoso per lui stesso, auto-lesionista, auto-distruttivo, sempre supposto che abbia senso pretendere di sapere cosa è 'buono' e cosa è 'cattivo' per lui (e,prima ancora,per voi!) Ebbene, che fare?
L'opzione di fondo è se 'dare un consiglio o no', ma a che livello?
'Dare un consiglio' può sembrare un gesto invadente, che solleva l'Altro da se stesso, e, anzi, pretende di sussumerlo in base al proprio Io. Io, che dò un consiglio, faccio esistere l'Altro, che non agisce come me, solo come una mia proiezione. L'Altro, per chi dà un consiglio è Non-A, cioè, colui che agisce diversamente da me (A), e non è piuttosto un B, cioè un'esistenza indipendente che agisce in base alla sua indipendenza, e che esisterebbe anche senza che io non ci fossi.
Ebbene: gran parte dei nostri comportamenti agiscono considerando l'altro come non-A e non piuttosto come un B: anche quando ci crediamo 'amici', o qualcosa di ulteriore all'amicizia, stiamo in verità invadendo lo spazio dell'altro, lo stiamo, cioè, assimilando a noi, e non cogliendo nella sua irriducibile specificità.
Inoltre. Il consiglio vuole svellere qualcosa visto come 'sbagliato', e dal vedere qualcosa di 'sbagliato' nel gesto d'Altri vi è, oltre che l'ego-centrismo, foss'anche il più benintenzionato (ma questo discorso non si basa sulle intenzioni! e questo non è parimenti un punto facile da capire per molti), vi può essere la metafisizzazione dell'errore: 'non è lui che decide di fare questo, è il Male che parla in lui'. Ho sentito anche queste affermazioni, in ambito di bioetica,ad esempio.
Se interagire con l'Altro come un B piuttosto che come un Non-A si concretizza in un 'fatti i cazzi tuoi' detto con il massimo affetto, perchè lascia essere l'Altro, sarà questo capito? Non sarà molto più frequentemente letto come un atto di disinteresse, quando invece è un 'vai verso te stesso' che è molto più profondo e rispettoso di ogni 'vai verso di me'?
Sembrerebbe che costoro vogliano essere invasi; vogliano essere ridotti a proiezioni d'altri; vogliano essere NON-A piuttosto che B; vogliono cure che siano sgravo e manlevazione della loro irriducibile destinazione di singolo, unico, solo.
Non gliele daremo.
Grazie Lévinas, anche per questo.

domenica 30 novembre 2008

Totalità vs Infinito

Totalità. Tutti i libri di una mensola. Tutti i mattoni del muro. Tutti i granelli della sabbia.
Tutti i granelli della sabbia sono 'totalità'? 'Contare'.
Contare quanti sono tutti i libri, tutti i mattoni, tutti i granelli ci dà la totalità.
Totalità. Credere che 1+1+1 faccia 3, senza considerare cosa c'è tra 1, 1, ed 1.
Senza considerare lo spazio.
Infinito: spazio, e non 'cosa'. Orizzonte, e non 'oggetto'.
Totalità da contare, da nomelencare, da millimetrare, da indagare.
Infinito da abitare.

venerdì 28 novembre 2008

Je est un autre

‘Je est un autre’, ‘Io è un altro’, intende porsi lungo il vallone erto e scosceso della soggettività. Che presupposto d’ogni scrittura sia una soggettività è cosa pur’ovvia, che cosa sia questa soggettività, è cosa altro che ovvia. Che la messa in discussione del che cos’è della soggettività sia altro che ovvia è parimenti ovvio, seppure.
Seppure affermare ‘io è un altro’ si presta a in-terminabili, o forse inter-minabili inter-pretazioni, e comunque ‘io è un altro’. Io, monolite che si staglia contro il mondo, soggetto che si ritaglia una porzione di un metro e ottanta per novanta chili, io che pesa sulla Terra novanta chili. Io che non è cosa, per quanto cosato, e si cosa massimamente quando chiama se stesso io.
Io sommamente imbecille quando crede di dire ‘io’, io sommamente imbecille che crede di esistere sempre, di esser-ci sempre. Io detestabile, io singolo, io unico. Per farla finita con la spaltung soggetto –oggetto dell’io… io cosmico. Io pneumatico, immerso nella relazione con tutto ciò che immediatamente, per fortuna o purtroppo, lo trascende. Contraddizione puerile di una trascendenza im-mediata.
Io che scrive, scrive un blog, ma, contravvenendo alla legge non scritta dei blog, lascerà fuori dal blog la ‘vita privata’. Che cosa sia il privato, questo bisognerà ancora capirlo. Se esiste un privato, esiste un politico, un aspetto di polis. Ma nell’interumano, piuttosto che nel sociale (il politico è il sociale, il sociale è il politico) ha ancora senso parlare di pubblico e privato? Non pare la riformulazione di un platoneggiante interno-esterno? Non c’è il caso di dire che l’esterno è –anche- l’interno.
Io è un altro: in definitiva, Io è una grondaia, un ricettacolo, ricettività che incontra forze, energie, stimolazioni determinanti dall’altro. Passività originaria, per farla finita con il soggetto onnipotente della tecnica e del nichilismo, e portare a un io cosmico i-spirato che può vivere davvero abitando.
Io è un altro: ‘io sono tutti i personaggi della storia’, cioè, nessuno, ma volta a volta, tutti, magari anche contemporaneamente, facendo collidere il principio di non contraddizione, apologizzando la contraddizione, più ricca e profonda di una quieta opinione che si crede vera. Istrionismo, e, se è il caso, ed è il caso, crudeltà.
Io è un altro: io me ne frego di Francesco Ferrari. Voi no, ma io si.